Tutto quello che c’è da sapere sui solfiti

La presenza dei solfiti nel vino è un argomento che sta catalizzando una grande attenzione ed in questi ultimi anni sta alimentando un dibattito molto sentito tra chi ne approva l’utilizzo e chi no. Il tema è delicato soprattutto perché coinvolge il vino, che è uno degli elementi cardine della nostra cultura, ed il risalto mediatico del dibattito non è riuscito ad appianare le divergenze, alimentando, al contrario, un senso di confusione e disorientamento per il consumatore.

Fare chiarezza sull’argomento diventa quindi un’occasione importante non tanto per prendere posizione favorevole o contraria sull’uso dei solfiti, ma per comprenderne meglio la natura, le modalità di utilizzo ed i reali effetti sulla salute dell’uomo.

Cosa sono i solfiti?

I solfiti, o anche anidride solforosa, sono delle sostanze chimiche impiegate comunemente nell’industria agroalimentare come conservanti. Questi conservanti svolgono una duplice azione:

  • antibatterica: inibiscono il proliferare di batteri che potrebbero deteriorare il prodotto
  • antiossidante: contrastano i processi di ossidazione che determinano la perdita di sapore ed odore degli alimenti.

Oltre che per il vino, l’industria alimentare li utilizza anche per la conservazione di succhi di frutta e marmellate.

L’utilizzo dei solfiti nel vino e le quantità consentite

Nel caso del vino, una parte di anidride solforosa (solfiti) viene prodotta naturalmente durante il processo di fermentazione alcolica del mosto. La quantità di solfiti prodotta in questo modo non supera, però, mai i 40 mg/l che sono una quantità insufficiente a conservare le caratteristiche organolettiche del vino e a combattere adeguatamente il proliferare dei batteri, il che rende necessaria l’introduzione artificiale di particolari solfiti (specie di bisolfito di sodio) che vengono aggiunti in vari momenti della produzione di vino, assolvendo, di volta in volta uno scopo diverso.

In particolare questi vengono aggiunti quando i grappoli arrivano in cantina, per evitare il proliferare di batteri e per consentire ai lieviti di fermentare in modo corretto; nella fermentazione dei rossi per agevolare il passaggio del colore delle vinacce al vino e per renderlo più stabile nel tempo; al termine della fermentazione per conservare il vino, limitandone l’ossidazione.

Il limite massimo dei solfiti presenti nel vino è stato fissato dalla normativa europea (Reg. CE No 606/2009) e è di 150 mg/l per i vini rossi e di 200 mg/l per i bianchi. Questi valori diventano rispettivamente di 200 e 250 mg/l per i vini dolci.
Le differenze nei limiti massimi consentiti sono legate al fatto che i vini rossi contengono sostanze polifenoliche, che ne favoriscono la conservazione, mentre i vini bianchi sono più esposti a un rapido deterioramento. Per i vini dolci, invece, si rende necessario un incremento di solfiti perché, non avendo trasformato in alcol tutti gli zuccheri, hanno la tendenza a continuare a fermentare.

Anche per i vini biologici la nuova normativa (Reg. CE 203/2012). ammette l’uso dei solfiti fissando le quantità massime a 100 mg/l per i rossi e 150 mg/l per bianchi e rosati, con la possibilità di aumentare in tutti i casi di 30 mg/l se il vino ha più di 2 grammi di zucchero residuo.
Come in tutti gli ambiti, l’uso corretto e responsabile della solfitazione nel vino può davvero aiutare a garantire la preservazione dei profumi e dei sapori originari. Al contrario un utilizzo eccessivo, invece, può alterarne le caratteristiche in modo significativo donando al vino un persistente odore di zolfo ed un sapore altrettanto cattivo.

I solfiti sono nocivi?

Poco ma sicuro, l’anidride solforosa non rientra tra le sostanze che potrebbe consigliarci un nutrizionista ma di certo non può essere considerata la più dannosa tra i conservanti utilizzati dall’industria alimentare.

Tra i disturbi che queste sostanze potrebbero provocare troviamo fenomeni di ipersensibilità, reazioni allergiche e una riduzione della capacità di assorbimento della vitamina B1. I fenomeni di cefalea o mal di testa, che spesso vengono associati al consumo di queste sostanze, non trovano un supporto scientifico chiaro. Se fosse vero, infatti, anche il consumo di frutta secca, crostacei e succhi di frutta dovrebbe generare questo disturbo, essendo questi alimenti particolarmente ricchi di anidride solforosa.

A meno di accertate intolleranze ai solfiti, pertanto, il consiglio è sempre quello di prestare attenzione a ciò che si mangia, preferire prodotti freschi e locali, bere con moderazione vino di qualità, eventualmente facendolo ossigenare nel bicchiere. Questa operazione, infatti, consente di liberare fino al 30-40% dell’anidride solforosa contenuta nel vino.

La FAO e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ne consigliano, come dose giornaliera massima accettabile, 0-0.7 milligrammi per chilo di peso corporeo. Una persona di 60 kg, quindi, non dovrebbe assumere più di 42 mg di solfiti al giorno.

Le alternative possibili

Grazie all’evoluzione delle tecnologie di cantina, si sta sviluppando la tendenza ad un impiego più mirato dell’anidride solforosa nella vinificazione.

È stato dimostrato, infatti, che l’utilizzo di uve sane ed un ambiente ben igienizzato servirebbe ad evitare il proliferare di batteri nelle prime fasi di lavorazione, mentre uno stretto controllo dei tempi e delle temperature permetterebbe di ottenere la fermentazione desiderata in modo naturale. In questo modo sarebbe possibile limitare l’aggiunta di solfiti solo alle fasi finali della lavorazione, quando le componenti del vino sono meglio integrate e legano meno facilmente con l’anidride solforosa.

Una buona vinificazione, quindi, può consentire di ridurre di oltre la metà i solfiti presenti nel vino: fortunatamente sempre più cantine si stanno muovendo in questa direzione.

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